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Cassazione: 'Unirelab (Masaf), illegittimo licenziamento di Silvia Saltamartini'

20 maggio 2025 - 10:41

La Corte di Cassazione dichiara l’illegittimità del licenziamento di Silvia Saltamartini, ex funzionario della Unirelab, e condanna l'ente a risarcirla.

Scritto da redazione
Silvia Saltamartini

Silvia Saltamartini

È arrivato il lieto fine per la vicenda riguardante il rapporto fra Silvia Saltamartini, ex coordinatrice della task force per la riforma dell'ippica creata nel 2019 dall'allora ministro delle Politiche agricole Gian Marco Centinaio, e Unirelab, società a totale partecipazione dello stesso ministero operante nell’ambito della medicina veterinaria.

Silvia Saltamartini, ex funzionario della Unirelab, era stata accusata di aver indebitamente percepito nel corso di 5 anni - da gennaio 2015 a novembre 2019 - somme forfettarie, indennità di mansioni e superminimi non dovuti per un importo complessivo pari a 160 mila euro. Compensi, benefit e retribuzioni messi sequestro preventivo, e che avevano portato i giudici a contestarle il reato di truffa aggravata in quanto avrebbe beneficiato delle indennità sulla base di documenti contraffatti.
Fatto che aveva portato la stessa Unirelab a licenziarla nel 2019 con la formula della “giusta causa”.

Ora, con una sentenza la Corte di cassazione, come già fatto dalla Corte di appello nel 2021, ha dichiarato l’illegittimità di tale licenziamento, condannando Unirelab al pagamento di indennità risarcitorie, Tfr, interessi legali e di mora, oltre alle spese legali.

Ed ecco le parole con cui la stessa Saltamartini, in un post sulla sua pagina Linkedin, commenta l'esito della vicenda giudiziaria: “Per anni ho lavorato con responsabilità e dedizione in una società a controllo pubblico, interamente partecipata dal Masaf.
Nel 2019 vengo licenziata per giusta causa. Un provvedimento motivato da accuse rivelatesi infondate.
Tre gradi di giudizio civile hanno accertato che: il licenziamento era illegittimo; le contestazioni non avevano fondamento; le mie mansioni erano state regolarmente svolte. Ma non sono stata reintegrata. Perché formalmente ero una dipendente privata, quindi priva delle tutele previste per il pubblico impiego.
Tuttavia, per lo stesso fatto, mi trovo ancora oggi: sotto processo penale, con un sequestro immobiliare; giudicata dalla Corte dei conti, come se fossi un pubblico ufficiale.
Un doppio paradosso: pubblica nei doveri, privata nei diritti. Penalizzata due volte per lo stesso fatto.
E mentre la giustizia civile ha fatto il suo corso, quella penale e contabile procede ancora, generando dispendio di risorse, conflitti normativi e sofferenza umana.
Nel frattempo: il mio Tfr è stato trattenuto per anni senza titolo, una parte è stata restituita dopo lunga attesa ma per ottenere il saldo potrei dover aprire un ulteriore contenzioso(!)
Eppure, tutte le somme percepite erano regolarmente dichiarate e tassate, autorizzate dalla società, corrisposte in busta paga.
E qui si apre un tema più grande di me: nessun amministratore, nessun organo di vigilanza, nessun’altra responsabilità accertata. Solo io. Che ho semplicemente lavorato. Che oggi sto affrontando tre procedimenti distinti, con tre linguaggi, tre strategie, tre percorsi giudiziari.
Una frammentazione che disorienta e logora.
Perché racconto tutto questo?
Non per reclamare attenzione personale. Ma perché la mia esperienza è diventata, suo malgrado, uno specchio di fragilità sistemiche e distorsioni normative.
La malagiustizia non è sempre figlia del dolo. Spesso nasce da automatismi, da inerzie, da decisioni assunte in assenza di una visione d’insieme. Non servono cattive intenzioni per produrre ingiustizia: bastano meccanismi scollegati e responsabilità che non si parlano.
Chi paga il prezzo? Non solo chi subisce, ma tutti i cittadini. Perché ogni contenzioso improprio ha un costo umano, sociale, economico.
E a sostenerlo è la collettività.
Questa è la vera anomalia.
E oggi ho scelto di raccontarla.
Con rispetto, con verità, con senso civico. Perché credere nella giustizia significa anche denunciarne i limiti. E amare le istituzioni significa avere il coraggio di proporre cambiamenti”.

 

 

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