Sono state pubblicate le sentenze di merito con cui il Tar Lazio ha dichiarato in parte inammissibili e in parte respinti i ricorsi presentati da alcuni operatori per chiedere l'annullamento della procedura finalizzata all’assegnazione delle concessioni per l’esercizio del gioco online per un periodo di nove anni.
Nel caso che abbiamo preso in esame, in particolare, il Tar Lazio ricorda che “la ricorrente si duole dell’erronea determinazione del valore della procedura, ergo della singola concessione, per l’importo di euro 37.137.464,54. Tale modus operandi, oltre a non essere sorretto da una trasparente modalità di calcolo, avrebbe in ogni caso effetti anticoncorrenziali, in danno dei concessionari che, come la ricorrente, detengono minori quote di mercato” e riporta nella sentenza: “Il valore della concessione è stato quindi calcolato quale somma di due addendi: l’una tantum di euro 7.000.000,00 (prevista in tale precisa entità dall’articolo 6, comma 5, lettera p) del decreto legislativo 25 marzo 2024, n. 41), e il canone annuale di concessione, che ogni concessionario è tenuto a versare in misura pari al 3 percento del margine netto della raccolta (come previsto dall’art.6, co.6, lett.n del D.Lgs.n.41/2024). Ai fini della determinazione del margine netto, l’Amministrazione ha considerato il margine netto medio, ovvero dell’intero mercato di riferimento, calcolato nell’ultimo triennio (2022-2023-3034). Detto margine, in ragione del progressivo aumento della raccolta per i giochi a distanza, è stato aumentato del 20 percento annuo per ciascuno dei nove anni di durata della concessione.
La contestazione sulla mancata indicazione di un metodo oggettivo di calcolo va dunque disattesa, posto che la lex specialis indica chiaramente che il valore della procedura è parametrato al valore della singola concessione e che detto valore corrisponde a quanto il singolo concessionario medio verserà all’Adm per l’attivazione (una tantum, fissata ex lege in euro 7 mln) e, in seguito, per la conduzione della concessione nel novennio (canone concessorio pari al 3 percento del margine netto medio sulla raccolta). L’entità della raccolta, su cui si fonda il margine netto (presupposto 'impositivo' del canone annuale), è stata calcolata a sua volta come valore 'medio' del mercato, applicando altresì una maggiorazione annuale del 20 percento (ipotizzando cioè che il mercato di settore cresca annualmente con un trend di pari sviluppo)”.
Ad avviso del Collegio, non persuade la doglianza con cui “ parte ricorrente contesta altresì che il predetto meccanismo di calcolo avrebbe portato a valori esorbitanti e sperequati, con effetti anticoncorrenziali in danno dei concessionari che detengono quote assai minoritarie del mercato, talmente insostenibili, nella prospettiva di parte ricorrente, da rendere oltremodo difficoltosa, se non impossibile, la presentazione di un’offerta consapevole”. Per i giudici “in primo luogo, occorre osservare che l’importo dell’una tantum è stato fissato direttamente dalla legge (rif. art.6, co.5, lett. p D.Lgs.n.41/2024) e pertanto, in disparte quanto infra con riguardo alla legittimità di tale previsione, esso si imponeva all’Adm.
Quanto al margine netto, parametro su cui si fonda l’entità del canone annuale e la cui aliquota (3 percento) è parimenti stabilita dalla legge (rif. art.6, co.6, lett. n D.Lgs.n.41/2024), Adm anche negli scritti difensivi ha confermato che il margine medio è stato desunto dall’osservazione dei valori dell’intero mercato nell’ultimo triennio, con l’applicazione di un coefficiente di maggiorazione del 20 percento annuo.
Rispetto alla tesi esposta, parte ricorrente non ha fornito in giudizio elementi idonei a comprovare il fatto che il valore del margine medio di mercato del triennio 2022/2024 (ossia la sommatoria del margine diviso il numero di concessionari) non corrisponda a realtà”. Inoltre, “anche sulla stima di incremento tendenziale della raccolta (20 percento pro anno), il ragionamento messo in pratica dall’Adm non appare manifestamente irragionevole, posto che: trattasi, necessariamente, di una stima condotta su un orizzonte temporale lungo (nove anni); oggettivamente, il mercato dei giochi a distanza è in rapidissima crescita, anche e soprattutto in ragione della progressiva informatizzazione del mercato delle scommesse; secondo i dati (incontestati sul punto) esposti dall’Avvocatura erariale, la crescita della raccolta, nel periodo 2019-2024, è pari al 153 percento”.
Nel ricorso inoltre viene contestato “che il metodo di calcolo per la determinazione del valore della procedura si sia fondato dichiaratamente sull’art.14, co.4 D.Lgs.n.36/2023, disposizione (tuttavia) che si applica, in conformità al suo letterale tenore, agli appalti e non alle concessioni”. Un motivo ritenuto inammissibile dal Tar Lazio, “in primo luogo per violazione della regola sancita all’art.40, co.1, lett. d) (specificità dei motivi di ricorso). In relazione a detto principio, la giurisprudenza è costante nell’affermare che il motivo di doglianza deve avere carattere 'perspicuo, inteso come idoneità a rendere comprensibile e percepibile la critica che si muove alla azione dei pubblici poteri, sia in punto di conformità alle fonti normative che ne governano il concreto dispiegarsi nella fattispecie, sia in punto di ragionevolezza, logicità e coerenza dell'iter procedimentale seguito, ovvero della insussistenza dell'eccesso di potere nelle sue disparate forme sintomatiche'”. E ancora: “La parte ricorrente si limita ad evidenziare la indebita applicazione della disposizione succitata, senza nulla chiarire in ordine alla regola da applicare e, soprattutto, senza esplicitare perché mai, con un diverso (e corretto) approccio fondato sull’applicazione della normativa pertinente, il valore della procedura si sarebbe legittimamente ribassato (dacchè, in buona sostanza, la censura di parte ricorrente mira, essenzialmente, a contestare la sperequata, eccessiva e anticoncorrenziale determinazione del valore della concessione).
L’analisi della censura, a ben guardare, porta pertanto a dubitare dell’ammissibilità della censura anche sotto profili derivati dal primo e, in particolare, della incoerenza con la ratio sostanziale della censura e della insussistenza dell’interesse della parte ricorrente a contestare l’applicazione del metodo di calcolo fondato sull’applicazione dell’art.14, co.4 D.Lgs.n.36/2023”.
E, “a rigore, la pedissequa applicazione dell’art.179, co.1 D.Lgs.n.36/2023 avrebbe condotto Adm a dover considerare, quale valore della procedura, un importo nettamente superiore rispetto a quello rilevato nel bando (euro 37.137.464,54), pari, come detto, alla sommatoria fra l’importo dell’una tantum (7 mln, fissato ex lege) e il canone di concessione versato per l’intero novennio di durata del rapporto, stimato a partire dal margine medio della raccolta”.
Scorrendo la sentenza quindi si legge: “Sempre in tema di valore (ritenuto) esorbitante della concessione, parte ricorrente contesta la mancata considerazione del mantenimento dell’equilibrio economico-finanziario del contratto nel corso del rapporto pluriennale. La contestazione non è plausibile. In primo luogo, nessuna delle disposizioni citate dalla ricorrente impone di considerare la revisione del contratto ai fini della determinazione del valore della procedura. Anche la Direttiva Concessioni, all’art.8, co.2, secondo periodo, suffraga l’impostazione suesposta, allorchè prevede che 'tale valore stimato è valido al momento dell’invio del bando di concessione o, nei casi in cui non sia previsto detto bando, al momento in cui l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore avvia la procedura di aggiudicazione della concessione, per esempio, contattando gli operatori economici in relazione alle concessioni'. Quanto alla normativa nazionale: l’art.177, co.5 D.lgs.n.36/2023 prevede che la concessione consenta di conservare l’equilibrio finanziario e, semmai, la norma può essere rilevante al fine di valutare la congruità della proposta progettuale del concorrente; l’art.192 D.Lgs.n.36/2023 afferma lo stesso principio proiettandosi nella fase esecutiva, prevedendo che, al verificarsi di eventi straordinari e imprevedibili, non imputabili al concessionario, le condizioni di concessione possono essere rinegoziate, fermi i limiti ivi stabiliti; quanto alla previsione recata dall’art.10 D.Lgs.n.41/2024, in merito alla necessità di prevedere, nei contratti, apposite clausole sulla rinegoziazione secondo buona fede, si rileva che a ciò l’Adm ha provveduto con l’art.4 dello Schema di Convenzione, recante analitica disciplina delle ipotesi che legittimano la rinegoziazione, in armonia con il principio generale di cui all’art.9 D.Lgs.n.36/2023”.
Inoltre, “sempre nell’ambito del primo motivo di ricorso, in via subordinata la ricorrente eccepisce l’illegittimità, costituzionale ed eurounitaria, della previsione recata dall’art. 6, co. 5 lett. p) d.lgs. n. 41/2024, integralmente recepita dal par. 4.6 delle Regole Amministrative, relativamente all’importo dell’una tantum, ritenuto sproporzionato e anticoncorrenziale. Ad avviso del Collegio, la parte ricorrente non fornisce in giudizio elementi probatori idonei a dimostrare la natura anticoncorrenziale dell’una tantum e, con essa, la contrarietà agli invocati principi di uguaglianza, concorrenzialità, proporzionalità, libero accesso ai servizi, ecc.”.
Ad ogni buon conto, dicono ancora i giudici amministrativi capitolini, “parte ricorrente non ha in alcun modo dimostrato che l’entità dell’una tantum (7 mln.) sia insostenibile e costituisca una barriera preclusiva all’accesso, specie ove si consideri che, nel succitato documento prodotto dalla ricorrente circa la simulazione dei canoni, la stessa espone un margine netto annuale (pari alla differenza fra somme incassate e somme riversate agli utenti vincitori ed all’Erario per l’Imposta Unica) superiore a 28 milioni di euro; ulteriormente, oltre a considerare che l’ordinamento consente anche forme di partecipazione in modalità aggregata, tali da ridurre il peso finanziario dell’una tantum, si evidenzia che l’avviso di gara non limita in alcun modo le possibilità per il concorrente di espandere le proprie quote di mercato rispetto all’attualità. Occorre altresì evidenziare che l’importo dell’una tantum (che grava peraltro sull’aggiudicatario e non sul mero concorrente) potrà essere recuperato e ammortizzato dal concessionario nel corso della novennale estensione del rapporto concessorio, attraverso dunque una rituale pianificazione pluriennale dei conti di gestione della convenzione”.
In merito agli importi delle garanzie (provvisoria e definitiva), sempre oggetto di ricorso, per il Tar Lazio “La censura non è condivisibile, sotto un duplice profilo: da un lato, per la prima annualità di durata della concessione, appare logicamente corretto riferire l’entità della garanzia al valore medio della concessione, stimato dal bando, in assenza di dati oggettivi sull’andamento della raccolta per il singolo concessionario; da un altro, e in correlazione con l’assunto che precede, la prima annualità è quella che, sotto l’aspetto esperienziale, presenta maggiormente la necessità di garantire in modo adeguato la copertura dell’Adm in merito ad eventuali irregolarità nello svolgimento del servizio, per il quale l’operatore economico si trova ad acquisire e gestire ingenti somme, da riversare poi all’Erario ed agli utenti”.
Con il terzo motivo vengono criticate le previsioni della lex specialis che regolano il piano degli investimenti da sostenere a cura dei concessionari. “Ad avviso del Collegio, posto che in alcun modo la ricorrente dimostra l’insostenibilità finanziaria degli investimenti pluriennali richiesti ai concessionari, si ritiene che le suddette previsioni, nella misura in cui predeterminano un’entità minima fissa (primi due anni) o comunque non parametrata al volume della raccolta del singolo concessionario, non siano irragionevoli, nella misura in cui è evidente la finalità dell’ente concedente di garantire un plafond minimo di interventi, allo scopo di realizzare le finalità per le quali detti interventi sono resi obbligatori in forza dell’art.8, co.1 dello Schema di Convenzione (adeguamento tecnologico, sicurezza del gioco). È evidente, pertanto, che la previsione di un impegno finanziario minimo, non ribassabile o rimodulabile, contribuisce a garantire maggiormente sia lo Stato che gli utenti finali, in ordine al raggiungimento (e al mantenimento) di uno standard adeguato, dato che le esigenze di adeguatezza tecnologica, nei minimi, non sono ribassabili e, soprattutto, non possono essere proporzionali ai volumi di raccolta del gioco”, si legge nella sentenza. Dove si rileva che, contrariamente a quanto supposto dai ricorrenti, l’obbligo di effettuare investimenti trova copertura nelle previsioni del D.Lgs.n.41/2024.
Con il quarto motivo di ricorso i ricorrenti censurano alcune previsioni della lex specialis in merito all’attività dei Punti vendita ricariche, ossia degli esercenti con i quali i concessionari possono sottoscrivere appositi contratti funzionali, essenzialmente, alla ricarica dei conti di gioco degli utenti. In questo caso, “come già prospettato alle parti, il Collegio ritiene che il motivo sia inammissibile, non avendo la parte ricorrente comprovato la portata escludente delle clausole impugnate”. Viene ribadito che “Nel caso della concessione dei servizi in questione (come nelle concessioni di servizio pubblico), peraltro, il potere di regolamentazione è implicitamente rafforzato in capo all’ente concedente, trattandosi di servizi e attività riservate, in linea di principio, allo Stato (cfr., art.6, co.1 D.Lgs.n.41/2024) e 'consentite' con il rilascio, a cura dell’Agenzia, di apposito titolo concessorio; in termini più specifici, sull’art.6, co.5, D.Lgs.n.41/2024, che prevede espressamente il potere dell’Adm di individuare requisiti e condizioni in capo al concessionario anche ulteriori (rif. lett. e) rispetto a quelli previsti dal medesimo comma (rif. lettere a-q). L’ampia dicitura utilizzata consente di ricomprendervi anche la disciplina dei Pvr, che hanno rapporti contrattuali con i concessionari e che, parimenti, sono soggetti alla vigilanza dell’Adm”.
La ricorrente contesta inoltre le previsioni dell’art.18 dello Schema di convenzione che, recependo le ipotesi della Determina del 25.10.2024, sanciscono la decadenza della concessione per mancato pagamento della quota di iscrizione. Ma il Tar Lazio, nel rilevare che la determinazione decadenziale costituisce il provvedimento conclusivo di un procedimento amministrativo, sottoposto come per legge ai principi del giusto procedimento, “osserva che la decadenza è espressamente prevista dall’art.13, co.2 D.Lgs.n.41/2024, che, al secondo periodo, prevede 'senz'altro la decadenza dall'iscrizione all'albo' in caso di 'mancato pagamento anche di una sola annualità del predetto importo'”.
La ricorrente poi suppone l'illegittimità di ulteriori previsioni dello Schema di convenzione, conformi sul punto alla normativa primaria (rif. art.13 D.Lgs.n.41/2024), ritenuta a sua volta non ossequiosa dei principi costituzionali ed eurounitari. In particolare “dell'obbligo di non introdurre nei contratti con i Pvr clausole di esclusiva; l’obbligo di concludere con i Pvr contratti necessariamente onerosi; il divieto per i Pvr di effettuare ricariche in contanti e con strumenti inidonei a consentire la tracciabilità dei flussi finanziari, oltre il limite di 100 euro/settimana; il divieto per i Pvr di consentire il prelievo dai conti di gioco.
Sul punto, si ritiene che i rilievi prospettati, focalizzati sulla norma primaria di riferimento, siano manifestamente infondati, trovando le relative previsioni in interessi di natura generale.
Nello specifico: il divieto di introduzione di clausole di esclusiva è posto a tutela del principio della concorrenzialità, onde scongiurare la possibilità di favorire eccessive concentrazioni a vantaggio dei competitor più forti sul mercato; l’obbligo di onerosità evita pratiche di abuso nella gestione delle attività dei Pvr, onde favorire serietà e professionalità nell’esercizio delle prerogative assegnate ai Pvr, anche a tutela della legalità; i divieti inerenti, rispettivamente, alle ricariche con mezzi non tracciati (oltre la somma di euro 100) e al prelievo dai conti di gioco rientrano nella finalità di contrasto al riciclaggio di danaro (rif. art.3, co.1, lett. g D.Lgs.n.41/2024), posto che, notoriamente, i giochi (e in particolare le scommesse) on line favoriscono l’afflusso di 'denaro sporco' riciclato dalla criminalità organizzata. Con le previsioni in questione, si intende (del tutto comprensibilmente) porre un limite all’afflusso incontrollato di danaro ed al relativo prelievo”.
In ultimo, viene contestato che l’articolo 18 dello Schema di convenzione non prevede, a differenza di quanto previsto nella Determina del 25.10.2024, che l’attività di Pvr posa essere affidata anche alle rivendite di tabacchi e di generi di monopolio. Sul punto, sottolineano i giudici amministrativi, “si osserva che non vi sono ragioni per non ritenere che la disciplina recata dallo Schema di Convenzione sia eterointegrata dalla Determina del 25.10.2024, peraltro richiamata all’art.2 delle Regole Amministrative, tra i riferimenti normativi generali”.