Con una sentenza, il Consiglio di Stato ha accolto in parte il ricorso presentato da un operatore, rappresentato dagli avvocati Luca Giacobbe e Matilde Tariciotti, riformando in parte la sentenza del Tar in proposito e annullando il provvedimento del dirigente dello Sportello unico per le attività produttive ed edilizia di Reggio Emilia che lo informava “della necessità di chiudere o delocalizzare entro un termine” la sala giochi, scommesse e Vlt che gestiva, perché “a distanza non consentita da un luogo sensibile”.
Come noto, la legge regionale del 2013 introduceva un distanziometro di 500 metri da una serie di luoghi sensibili, mentre i Comuni dovevano eseguire una mappatura del proprio territorio così da individuare i luoghi sensibili presenti ma anche le sale giochi e scommesse, disponendo la delocalizzazione o la chiusura da quelli a distanza irregolare.
Così ha fatto il Comune di Reggio Emilia, individuando tra le sale troppo vicini a luoghi sensibili (una casa di cura e una parrocchia) quella del ricorrente.
Era dunque seguito il provvedimento del Suap oggetto di ricorso inizialmente al Tar, ma successivamente la giunta regionale ha prorogato i termini accordati ai titolari degli esercizi posti a distanza irregolare per delocalizzarli.
Dopo il pronunciamento negativo del Tar, la società ha dunque proposto ricorso al Consiglio di Stato, asserendo tra l'altro che “la delocalizzazione della propria attività sarebbe stata in concreto impossibile e che comunque le possibili localizzazioni alternative sarebbero state non idonee commercialmente” e contestando “la decisione del giudice di I grado, che ha escluso l’effetto espulsivo sulla base di una verificazione disposta in corso di giudizio, verificazione che sarebbe pervenuta a risultati non veritieri, come da una propria perizia di parte depositata successivamente”.
Il Consiglio di Stato ha nel 2023 respinto l'istanza cautelare, ma ha anche disposto un'istruttoria, richiedendo al Comune di presentare entro un termine una relazione finalizzata a “verificare se l’effetto espulsivo dell’attività della ricorrente appellante si sia in concreto verificato, al di là delle previsioni astratte”.
Nella sentenza, il CdS ritiene i motivi del ricorso “infondati nella parte in cui contestano la legittimità in assoluto del meccanismo del distanziometro”, ed evidenzia come la giurisprudenza consideri “legittimo il distanziometro nel momento in cui la distanza minima da rispettare sia fissata in un valore non eccessivo, compreso fra i 300 e i 500 metri di cui si tratta, con la conseguenza di lasciare disponibile per esercitare l’attività in esame una percentuale anche modesta, ma comunque esistente, del territorio comunale”.
Ma “il Collegio ritiene invece che nel caso concreto la dedotta impossibilità di delocalizzare l’attività gestite dalla parte appellante sussistesse”.
Nel caso di specie infatti, “un effetto espulsivo nel concreto - dovuto cioè, secondo quanto allega la parte appellante, non alla disciplina generale, ma alla particolare disciplina urbanistica adottata dal Comune nel momento storico rilevante - va ritenuto ravvisabile”. Innanzitutto, argomentano i giudici, “il provvedimento impugnato è del 30 luglio 2018, ovvero risale ad un momento in cui, secondo le informazioni fornite dal Comune, la delocalizzazione era consentita, se pure con l’onere aggiuntivo della stipula di un accordo operativo o dell’inserimento nel Poc”. Ad avviso del Collegio però, “questa previsione, rimasta in vigore come si è detto sino al 5 dicembre 2019, nei confronti della ricorrente appellante è rimasta ineffettiva per fatto del Comune. Risulta infatti che la ricorrente appellante avesse presentato al Comune stesso una domanda 31 agosto 2018 in cui aveva chiesto di chiarire quali aree del territorio si potessero considerare idonee, domanda alla quale non consta sia stata in alcun modo fornita una risposta. A fronte di questa domanda, che al di là della terminologia usata era interpretabile in modo chiaro come domanda di delocalizzazione, dato che la società chiedeva in sintesi come potesse fare a continuare a lavorare in modo lecito, il Comune, in uno spirito di leale collaborazione, avrebbe dovuto anzitutto dare una risposta, e poi evidenziare che vi era la possibilità di inserimento nel Poc (Piano operativo comunale) e di stipula dell’accordo operativo. Non facendolo, ha creato un effetto espulsivo in concreto, perché le possibilità di proseguire l’attività consentita dalla normativa urbanistica, vi fossero o no nel caso di specie, non sono state nemmeno esaminate”.